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LETTERA SULLA GUERRA

di Giovanni Commare



                                                                                        Ottobre,  2001

Caro M.,

mi dispiace averti fatto aspettare tre settimane una risposta alla tua lettera. Forse, più o meno consciamente, aspettavo che lo svolgersi degli eventi rendesse chiaro ciò che nella mia mente non lo era. Così ogni giorno ci ho pensato e ho aggiunto, corretto, tagliato qualche nota. Eccola per paragrafi.

MANIFESTAZIONE CONTRO IL TERRORISMO E CONTRO LA GUERRA
Le prime idee e confuse, le emozioni furiose, ho cercato di scriverle subito dopo avere letto le tue riflessioni. Tornavo da una manifestazione, la seconda a Firenze, contro il terrorismo e contro la guerra. Avevo partecipato senza molta convinzione, sentendomi montare dentro una furia che a stento ero riuscito a controllare, grazie al fatto che potevo discutere, come capita in queste occasioni, con compagni e amiche/amici di varie età di ciò che stavamo facendo. Non mi convincevano certi slogan contro la guerra prodotti da quel genere di pacifismo che si manifesta solo quando gli USA muovono le armate; non mi piaceva nemmeno che a urlarli fossero alcuni che per sentirsi rivoluzionari devono per forza menare le mani e alcuni loro fratellini che con le provocazioni sabotano i cortei dei compagni che non riescono a egemonizzare con la forza delle idee. 
Mi aveva depresso il pensiero che su quelle strade manifesto da più di trent’anni, una sorta di rito laico per uno che dall’infanzia non celebra più riti religiosi. (Naturalmente non ho avuto il coraggio di domandarmi che cosa ho concluso con tutte queste manifestazioni). E la stanchezza si era tramutata in furia per essere sotto il peso di azioni, il terrorismo e la guerra, sulle quali di fatto non abbiamo influenza. Così il rito si era rivelato per ciò che era: un modo per consolare la coscienza lacerata.
Mi rivedevo, in un film di trent’anni prima, manifestare per il Vietnam e contro gli USA. Sottoscriverei oggi le ragioni di allora? Certo, tutte. Difendevo innanzitutto la vita e la libertà di un popolo, il diritto all’autodeterminazione; lottavo per ridurre il campo d’azione dell’imperialismo e per  dare maggiori possibilità alla realizzazione del socialismo; difendevo la dimensione umana contro il predominio delle merci e delle macchine; in questa lotta vedevo porsi le basi di una superiore civiltà fondata sulla fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e perciò sull’abolizione della proprietà privata, sulla democrazia e sull’eguaglianza non solo dei diritti ma delle possibilità. Ero lontano da ogni fanatismo. Ne sono sicuro, non solo perché non ho mai visto nella rivoluzione socialista una catarsi dell’umanità e la realizzazione del regno della felicità, ma anche perché nel giro delle mie relazioni personali non escludevo amici democristiani o di stare a cena anche con un vecchio rottame repubblichino, uno dei pochi fascisti che aveva pagato il suo conto con la storia perdendo un figlio e  tutto ciò che possedeva.
Se i vietcong avessero attaccato o fatto saltare in aria un grattacielo di New York sarei stato dalla loro parte? Sì, penso di sì. L’avrei considerata una forma di autodifesa, un atto di una guerra di cui condividevo i fini. I vietnamiti invece non hanno praticato nessuna forma di terrorismo al di fuori delle zone di guerra, e questo è per me una riprova  della loro superiorità morale e storica rispetto agli americani che distruggevano i loro poveri villaggi e li sterminavano con le bombe e il napalm. Tale giudizio non elimina il fatto che alla fine del ‘900 l’idea del socialismo, così come si era realizzata nel corso del secolo, sia stata sconfitta e che il capitalismo imperialistico domini il pianeta. Così come prendere atto della sconfitta non significa che io non creda necessario e giusto lottare per una società che abbia le caratteristiche del socialismo così come l’ho prima definito, né che l’imperialismo sia la fine della storia e il bene dell’umanità solo perché domina vittorioso. Le tragedie e le contraddizioni che genera sono terribili e sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.

O CON GLI STATI UNITI O CON IL TERRORISMO
L’attacco terroristico a New York e a Washington con le sue migliaia di vittime sta tutto dentro queste tragedie e queste contraddizioni. Ma non è solo questo. Esso mi ha anche confermato, nella violenza e nella radicalità del gesto, la mia appartenenza al mondo occidentale, con tutte le sue contraddizioni, con tutti i suoi privilegi che io contesto mentre comunque ne godo una parte (ma la libertà  è una conquista che mi appartiene, non una concessione del sistema!). Mi ha rivelato, senza ombra di dubbio, che io non ho niente da spartire con i talebani e con i fondamentalisti islamici, che hanno trovato spazio a causa della politica imperialistica americana e al fallimento dei regimi socialisti. Essi sono una sciagura per il popolo afghano e per l’umanità,  i profeti armati di una barbarie che chiunque abbia a cuore libertà, democrazia, socialismo deve contribuire a combattere (come da anni con appelli disperati ci dicono le donne della RAWA).
Mi si dice: o con gli USA o con la barbarie dei fondamentalisti. Anche questa l’ho già sentita, riferita a un contesto nazionale: o con lo Stato o con le BR. E mi ricordo che nella sinistra rivoluzionaria si aprì il dibattito sui “compagni che sbagliano”. Io non riuscivo a sentire “compagni” i brigatisti  che con gambizzamenti, omicidi e “attacchi al cuore dello stato”,  toglievano spazio e voce al movimento degli operai e degli studenti. Con la violenza i brigatisti avevano la presunzione di imporre la linea della lotta armata a tutto il movimento operaio, contribuendo invece così alla sua sconfitta ( di questo non mi pare che si siano mai pentiti). Ma soprattutto sapevo, come Alex Langer, che mai avrei potuto vivere in un paese in cui loro fossero stati al potere. Così come non potrei vivere in un paese governato dai talebani: le mie figlie e io a Kabul saremmo lapidati nella pubblica piazza. Mi schiero quindi apertamente e nettamente contro questa barbarie.
Risulta chiaro che il terrorismo dei fondamentalisti vuole imporsi alle varie anime dell’Islam e del mondo arabo, soprattutto dei palestinesi, propugnando una guerra di religione e di culture. Noi comunisti certo non cadiamo in questo tranello. Dobbiamo fare in modo che neanche l’opinione pubblica del nostro paese ci cada. Non c’è caduto fino a oggi nemmeno il governo degli USA che si è rivelato meno stupido di quanto vogliamo di solito credere e mentre bombarda afferma che le bombe sono solo per i cattivi  terroristi talebani, ma agli afghani buoni porta cibo, acqua e medicinali, perché la guerra è contro i terroristi e non contro gli amici arabi e islamici. Qualche missile che finisce su depositi della Croce rossa o su un ospedale è messo nel conto della guerra.
Tuttavia sento che mi si vuole imporre di parteggiare in un torneo da cui è stata esclusa la mia squadra. Io in questa guerra non sono rappresentato,  anche se i morti, gli incendi e le distruzioni di New York li ho sentiti vicini, come se fossero avvenuti nella mia città: avevo una  nipote, un’allieva, un’amica e tante persone che conoscevo da quelle parti! Avevo accanto amici e parenti attaccati disperatamente al telefono, che non dava la linea, per avere notizie dei loro cari.
Ma non posso accettare la logica da film western vecchia maniera secondo la quale gli americani sono i buoni che combattono per la libertà e la dignità dell’uomo e i terroristi i barbari cattivi da sterminare come gli indiani d’America. C’è troppa puzza di petrolio e di dollari in giro per poterci credere. Si può negare che l’economia USA era in una crisi irreversibile al punto che si annunciava la catastrofe della recessione? E’ ragionevole pensare che una guerra poteva essere ed è una via d’uscita, sebbene provvisoria.  Eccola, dunque, la guerra che giunge a proposito. Attraverso essa l’imperialismo si aprirà nuovi spazi di dominio, nuovi mercati e l’accesso ad altra fonti d’energia, preparandosi a un confronto (a una  resa dei conti?) con Europa, Russia e Cina, che però intanto ne approvano con tanti sorrisi le iniziative. Non mi si può chiedere d’identificarmi con la logica dell’imperialismo americano.

CONTRO I TALEBANI E CONTRO L’IMPERIALISMO
Lascia però troppe zone oscure l’analisi di questa guerra solo come un aspetto della crisi del capitalismo, come fanno certi miei compagni, che, per il distacco dalle emozioni e dalle angosce dei comunisti in carne e ossa, talvolta mi sembrano monaci buddisti tibetani. Assunto questo punto di vista infatti si aprono altre contraddizioni. Nel ragionamento emerge una falla preoccupante: lo sviluppo del capitalismo imperialistico piuttosto che produrre e rafforzare la classe antagonista che lo spazzerà via, sembra scatenare schegge impazzite il cui fine sfugge e che allontanano la prospettiva di una rottura rivoluzionaria.
Allora mi vengono strani pensieri: non è che per una parte del popolo afghano, quelle donne per es. che verso la fine degli anni ’70 avevano cominciato a gustare i piaceri di una relativa libertà,  la guerra americana possa essere una guerra di liberazione, come lo è stata per chi stava all’opposizione nell’Italia fascista? Mi domando: che interesse abbiamo noi marxisti e antimperialisti a rinviare o impedire la sconfitta dei talebani, cioè l’affermazione in Asia di un capitalismo più moderno che certamente porterà le contraddizioni  di classe a un livello superiore? Chi sa, potrebbe perfino nascerne un movimento socialista con prospettive nuove e planetarie. E’ proprio una bestemmia porsi queste domande?
Io me le pongo proprio mentre avverto che  l’attacco contro gli USA e la guerra degli USA e dei loro alleati tolgono nell’immediato spazio all’azione antimperialista, ma soprattutto rende più difficile la lotta degli sfruttati del Terzo mondo. Diceva l’altra sera la leader democratica guatemalteca Rosalina Tuyuc che, mentre le potenze si coordinano nella lotta contro il terrorismo, nel suo paese si rafforza l’impunità dei responsabili di genocidio e di crimini contro l’umanità e si prepara una nuova svolta autoritaria, così che già ora lottare per la giustizia, denunciare l’impunità, lottare per la terra comporta il rischio di essere accusati di terrorismo. Ma questa lotta continua, non si ferma perché c’è la guerra. E’ più difficile. Come è più difficile oggi chiamare anche gli USA a rispondere dei crimini commessi in Guatemala, e nell’America latina, nonostante che Clinton abbia trovato la faccia di chiedere scusa. Ma bisogna continuare a farlo.
Le idee non nascono nelle teste dei filosofi (e degli artisti) se non c’è un movimento reale che le produce. Come un fuocherello nella tormenta dobbiamo perciò continuare ad alimentare il movimento contro la “globalizzazione”, che ha dimensione internazionale e nel quale, per la prima volta dopo tanti anni, si sono impegnate nuove generazioni di giovani  per dimostrare che “un altro mondo è possibile”. Così va sostenuta ogni iniziativa che miri a una rifondazione dell’ONU come governo dei popoli e non come braccio inerme della politica estera degli USA e delle potenze alleate (l’obiettivo concreto più immediatamente raggiungibile è la ratifica del Trattato di Roma sulla istituzione del Tribunale Penale Internazionale).
E’ evidente che, se le operazioni contro le basi dei fondamentalisti islamici fossero condotte sotto la direzione dell’ONU, l’unico organismo che potrebbe legittimarle, si diraderebbe, almeno in parte, la puzza di petrolio, oleodotti , oppio, mercati asiatici, soccorso alle aziende in crisi di profitti, ecc. che accompagna la guerra americana.

I SENSI DI COLPA
Il bambino che è in me, e nella quasi totalità delle ragazze e dei ragazzi con cui discuto, vorrebbe razionalmente, gratuitamente e ottimisticamente credere che gli uomini sono pacifici e buoni, che l’aggressività naturale si possa sublimare in imprese belle e nobili. La realtà, i fatti s’incaricano però di dargli continue e terribili smentite. Allora sento il dovere di ricordare che ci sono gruppi di uomini e donne, convintissimi di fare qualcosa di buono e di degno, che oggi, come ieri, progettano distruzioni, stragi e sterminio. L’adulto deve certo avvertire il bambino che l’oscuro assassino è anche dentro di noi, e che ci vuole tutta la lucidità della mente e forza di sentimento per tenerlo a bada. Ma intanto è chiaro che chi ha progettato l’attacco a New York e a Washington ha mente e cuore tanto crudeli da essere capace di usare qualsiasi arma di sterminio di massa, non escluse quelle chimiche, batteriologiche e nucleari, solo che riesca a impadronirsene. Il bambino può restare incantato di fronte allo spettacolo del terrore, ma si può sempre sperare che non sia così istupidito da coltivare la propria distruzione.
Allora, di fronte a una minaccia di questa portata, posso restare paralizzato ad analizzare i miei sensi di colpa perché sono un occidentale che “vive meglio degli imperatori romani”, mentre un miliardo di miei simili soffre la fame? No. Io questo senso di colpa non ce l’ho. Non solo perché da quando sono entrato nell'età della ragione lotto per la libertà e per l'uguaglianza. Ma anche perché sono nato alcuni secoli fa tra i muli e i carretti, tiravo l’acqua su dal pozzo con un secchio, facevo luce di notte con un lume a petrolio, sapevo e so zappare e persino tenere un pezzo di orto. E in città viaggio a piedi e in bicicletta. A gran parte degli oggetti che ho posso rinunciare. Mi mancherebbe forse solo il cinema che è una gioia per la mia mente e per gli occhi. Vale solo per me e per qualcuno della mia età? No. So che una parte dei giovani con cui ho a che fare, come la maggioranza degli adulti, per difendere ciò che ha è disposta ad accettare, se non proprio a sostenere, non solo Berlusconi, ma anche la mafia, la guerra e lo sterminio di chiunque e in qualsiasi modo glielo minacci. Nemmeno costoro hanno sensi di colpa. Hanno già imparato che la vita è lotta. Ma il mestiere di insegnante e di padre  non consiste in buona parte nel mettere a confronto epoche, tradizioni, idee e qualcuna delle  relative bussole per orientarsi?  Consiste anche nell’ascoltare domande terribili come questa: perché un gesto violento cambia il corso della storia e un gesto di pace no? E nel non avere una risposta adeguata.

Come vedi non ci sono certezze né pillole di verità. Quelle quattro cose che abbiamo imparato vivendo ci consentono di andare avanti avendo una qualche idea di dove siamo e che cosa facciamo. Quando i fatti sono più grandi delle nostre idee sul mondo, non possiamo che fare e farci domande, anche se c’è il rischio di bruciarsi i pensieri e le mani.

Ti abbraccio

G.


Terrorismo: una definizione

UNA FORMA DELLA GUERRA

  Il terrorismo è una forma della guerra. Di solito, è scelta e usata da chi non ha il potere, cioè il monopolio della forza, e si costruisce quindi segretamente una forza per conquistarlo.
Esiste anche il terrorismo esercitato, direttamente o indirettamente, da chi detiene il potere per controllare e/o distruggere soggetti e organizzazioni che gli si oppongono.
  L’azione terroristica colpisce in modo indiscriminato, come strage, quando il fine è creare confusione e/o pànico nel campo nemico, oppure si concentra su obiettivi selezionati d’alto valore politico e simbolico, se vuole esplicitare la sua politica e disarticolare i centri di potere. L’attacco a New York e Washington dell’11 settembre 2001 è un capolavoro del terrorismo in quanto coniuga la scelta di un obiettivo altamente simbolico con la strage indiscriminata volta a seminare il terrore.
  Qualche limite all’uso del terrorismo di stato hanno posto la lotta di classe, i movimenti di massa democratici e socialisti.
  I migliori specialisti nella lotta al terrorismo sovversivo del potere costituito sono i servizi segreti israeliani che lo contrastano con i suoi stessi mezzi (omicidi, rapimenti, attentati, stragi).
  Ma i migliori specialisti israeliani non hanno eliminato il terrorismo, neanche nel loro paese. Neppure i buoni sentimenti e i predicatori di pace hanno ottenuto risultati significativi.


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